Se ci dici Giugno, per noi markettari è subito Pride Month, ricorrenza dei moti di Stonewell del 27 e 28 giugno del 1969, che diedero inizio alle rivendicazioni delle comunità LGBTQ. Da diversi anni ormai, sono tante le iniziative dei brand, che ciclicamente si tingono dei colori dell’arcobaleno per mostrare la loro vicinanza alla comunità LGBTQ.
Proprio qualche giorno fa avevamo parlato del caso di Oreo che ormai da tre anni sostiene le comunità LGBTQ e non solo a parole. Sempre più spesso però, questa ricorrenza non va oltre la semplice strategia di marketing, ed è proprio così che si cade nel così detto rainbow washing. Di cosa si tratta?
Quello di quest'anno devono ancora postarlo ma attendiamo fiduciosi. Let the #RainbowWashing begin 🏳️🌈🌈 pic.twitter.com/pe4jyyLmdV
— Serena (@cookiewise42) June 1, 2022
Rainbow washing: quando il pride month diventa un’ottima scusa
Il rainbow washing è un fenomeno strettamente legato alle comunità LGBTQ e si verifica quando un brand, pur di attrarre gli utenti e quindi vendere più merce, appoggia questo tipo di iniziative ma solo “sulla carta”.
Quante pubblicità, loghi o cartelloni pubblicitari hai visto, di grandi marchi che per l’occasione si tingono dei colori dell’arcobaleno o meglio ancora, lanciano collezioni limited edition? L’impatto visivo che i loghi arcobaleno possono avere sui consumatori è talmente alto da spingerli a fare acquisti che sembrano gay-frendly ma che in realtà non lo sono affatto.
I grandi colossi sono i primi a peccare di falsa inclusività
Gli esempi di rainbow washing possono essere tantissimi, e generalmente vengono quasi sempre dagli insospettabili. Nike per esempio, ha più volte annunciato un merchandising gay-frendly senza mai apportare un aiuto concreto, anzi al contrario,investendo più volte nel lavoro shiavile. Potremmo portare l’esempio di colossi come Google che, nonostante abbia sostenuto vari pride americani, ha contemporaneamente donato ben 178.000 dollari a politici anti LGBTQ.
Cosa succede quando il rainbow washing arriva sui social?
Altro tratto caratteristico del rainbow washing è quello di portare sulle pagine social di multinazionali e grandi società esponenti della comunità LGBTQ, con il fine di sponsorizzare i loro prodotti per mostrare quanto il loro brand sia inclusivo.
Per contrastare il rainbow washing è nato il movimento #WhoMadeMyPridemerch (chi ha creato la mia merce per il Pride) ad opera di Izzy McLeod che denuncia i brand che fanno uso di rainbow washing con la speranza di un cambio di rotta da parte dei consumatori.